Portolano, il blog di Mesogea: «Dentro e fuori il Mediterraneo» di Martino Manca

di Martino MancaEncrucijada*

portolano

Vado a Linosa da quando sono nato e non vi è mai stato un anno che abbia rinunciato a trascorrervi anche solo qualche giorno. È un’isola dimenticata, vecchia colonia penale, gemma recente del turismo, sorella minore della più nota Lampedusa, porto d’approdo di migranti che sbagliano la rotta e vanno più a nord di quanto vorrebbero. È un’isola vulcanica, rocciosa, a tratti inospitale, inadatta al turista medio: la giri tutta in un’oretta a piedi, ci sono quattro bar e tre ristoranti, tre supermercati, un panificio e un macellaio. A parte il mare non ha molto da offrire, il suo interno è una distesa irregolare di rocce e macchia mediterranea, lentischi, capperi, viti basse di zibibbo e tamerici, oltre a vari rovi spinosi. L’agricoltura è povera: qualche fico, i capperi, una volta lenticchie ma ora non più, non hanno mercato perché sono troppo piccole; tutto è troppo piccolo, troppo intenso, troppo dolce o troppo aspro per poter piacere al mercato. I turisti se ne tornano con la loro bottiglietta di capperi con un bel fiocchetto e una cartolina – sempre la stessa da vent’anni. La pesca è potenzialmente ricca ma gli abitanti non la praticano più di tanto: e comunque sempre su piccola scala, senza pescherecci o reti a strascico – si strapperebbero sui fondali rocciosi. Una lenza, una canna, una rete di piccole dimensioni, qualche amo.

Mi piace pensare che quest’isola sia la mia seconda casa dove le mie origini isolane si sono potute davvero radicare nel corso degli anni, anche se il mio vivere Linosa è sempre molto effimero, poiché ci vado prevalentemente d’estate; cerco comunque di rimanere fedele ai ritmi rallentati e inusuali che il respiro dell’isola sembra dettare. Sveglia presto e letto presto perché a fine estate il sole tramonta che non sono neanche le 18; mattine brevi e intense, pomeriggi lunghi e afosi rintanati in casa nelle ore più calde. Sere silenziose con le brezze notturne che spirano dalla terra al mare calmando le onde della giornata. Parlare con la gente del posto, stare ore al molo a fare niente con i vecchi dell’isola – molto più interessanti dei giovani che invece ricercano la frenesia che lì manca – fa per un attimo cadere la maschera dell’abitante della città.

La frontiera vista dalla frontiera non esiste: non vi è un al di qua o un al di là. Vi è solo un dentro e un più-dentro. Il mio Mediterraneo si dipana a raggiera da quella piccola isola: tutto vi è distante, la Sicilia – terraferma –, la penisola Italiana – il continente –, le coste dell’Africa – che toccano prima Lampedusa –, persino Lampedusa stessa è lontana: la vedi a occhio nudo nei giorni in cui la visibilità è buona ma se il mare è mosso non ci puoi arrivare. Le stesse persone del posto tengono a distanza gli “altri”, me compreso, dai siciliani ai pochi turisti stranieri. Non è una rivendicazione di una certa identità – le poche famiglie, che si contano sulle dita di una mano, vantano origini contorte, arabe, nordiche, dove ex abitanti della colonia penale si legano a borghesi del nord venuti in vacanza –, ma il respirare un senso di appartenenza. E chiunque di locale provi a uscirne inevitabilmente ritorna, sempre; i pochi che riescono a staccare del tutto sono rinnegati dalla famiglia, reietti. Non ci sono alternative per i locali: o resti o ti allontani per sempre. O scegli di respirare quell’aria dell’isola e di farti consumare da essa, o scegli di portare quell’isola con te da qualche altra parte, consapevole che non vi potrai più tornare. Se da un lato quindi un abitante di Linosa si sente in comunanza con tutti – perché nella loro cosmogonia il mondo intero è fatto di piccole isole da cui solo pochi riescono ad allontanarsi – dall’altro la mediterraneità si riduce all’isolanità – alla linosità.

Di Braudel e di Matvejević mi resta la grande sensazione che non si possa parlare del Mediterraneo senza farne una narrazione – senza fare una narrazione del proprio Mediterraneo. I filtri che si scelgono per narrare sono più o meno utili, più o meno raffinati, ma hanno valore fintanto che – come nelle pagine che più mi sono piaciute di Braudel e Matvejević – vengono riconosciuti come filtri. La dialettica del fare domande/cercare risposte lascia quindi spazio a un puro racconto: racconto di viaggi, di vita, di idee, di sensazioni e di percezioni. Racconto che è la resa di colui (o colei) che – sentendosi parte di uno spazio-frontiera – accetta l’impossibilità di dire dove sia rispetto al “resto del mondo”, se non al centro; ma sentendo fragile questa sua centralità – che pure non può semplicemente porre tra parentesi – sempre accetta l’idea che ogni personale definizione di un fuori e di un dentro sia comunque una definizione politica, ideologica, strumentale. E tale definizione è comunque imprescindibile, non se ne può fare a meno. Come si diceva nei gruppi femministi degli anni ’70: il personale è politico.

Le alternative che mi si presentano sono quindi due: o narrare semplicemente il Mediterraneo con me al centro – con tutte le accortezze del caso – oppure, come spesso faccio, parlare d’altro e lasciare che questa “cosa” risuoni nel mio parlare d’altro.

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* Encrucijada, dal nome dal mitico bar del romanzo di Roberto Bolaño I detective selvaggi, è un gruppo di studio alternativo, nato ai margini del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino, nel 2019. Animata dall’interesse per il rapporto tra filosofia e letteratura, la ricerca del gruppo si è concentrata sullo studio della categoria di ‘Frontiera’, dando vita alla serie di incontri seminariali ancora in corso dal titolo Seminario Mediterraneo – Incontri sulla frontiera.

Il gruppo è coordinato da Andrea Baglione ed è formato da: Sara Brianti, Giovanni Centracchio, Marco Fornaseri, Martino Manca, Francisco Martín Cabrero e Valentina Maurella.

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